Rotta verso l’ignoto: dalla Khaosan Road a Kanchanaburi: Capitolo 10
10–14 minuti

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A Bangkok il mio corpo si è finalmente ripreso e con la libertà di chi non ha vincoli lascio Khaosan Road. Tra colazione, un taglio di capelli e scorci nascosti della città, l’adrenalina cresce. Andrea parte verso Krabi, e io, spinto da un impulso improvviso, cambio piano: invece di Ayutthaya, il mio bus mi porterà a Kanchanaburi. La sensazione di libertà, di scegliere all’ultimo istante, è pura e travolgente. È l’inizio del viaggio vero, quello che mi porterà a scoprire l’anima della Thailandia.

Un nuovo giorno a Bangkok

Inizia un nuovo giorno a Bangkok e sento che il mio corpo si è ripreso completamente. Dopo la giornata di ieri, è come se avessi premuto il tasto reset: energie nuove, mente lucida, voglia di muovermi. Con questo spirito, faccio una doccia rigenerante e preparo le ultime cose da infilare nello zaino. Oggi si viaggia. Oggi si cambia “casa”.

Nella hall dell’hotel mi incontro con Andrea, che come me ha lo zaino pronto. Decidiamo di lasciarli alla reception per goderci ancora qualche ora di Bangkok. Appena mettiamo piede fuori, veniamo avvolti da quel caldo umido e appiccicoso che sembra quasi volerti fermare, ma a cui ormai ho fatto l’abitudine. La Khaosan Road di giorno è quasi irriconoscibile: vuota, silenziosa, con le serrande abbassate dei locali che solo poche ore prima erano in pieno delirio.

Prima di colazione, mi concedo un piccolo lusso: qualche souvenir. In uno dei tanti shop trovo una maglietta con la stampa del 7-Eleven e non resisto. Lo ammetto: sono innamorato del 7-Eleven. Quelle luci, quegli scaffali ordinati, quella musichetta all’ingresso quando si aprono le porte, il cibo pronto a ogni ora… quasi un tempio per chi viaggia in Asia.

Colazione, taglio di capelli e un pezzo di Napoli

La colazione la facciamo alle spalle di Khaosan, in uno dei tanti bar con quell’atmosfera rilassata che ti fa dimenticare di essere in una metropoli. Dopo aver mangiato, però, sento il bisogno di tagliare i capelli. Andrea invece ha un’idea tutta sua: un tatuaggio, piccolo ma significativo, un aereo stilizzato.

Chiedo in giro informazioni su un barbiere, ma i primi che mi consigliano non mi ispirano. Continuo a camminare per una decina di minuti finché trovo quel posto giusto: un barbiere all’interno di un centro massaggi – cosa molto comune qui vicino a Khaosan. Entro, e subito vengo accolto da sorrisi sinceri, di quelli tipici del popolo thai. Come si fa a essere tristi in Thailandia?

Alla poltrona mi aspetta una donna già con le forbici in mano, sguardo sicuro, aria professionale. Mi siedo e mi affido completamente a lei. Nel frattempo mando la posizione ad Andrea, che finito il tatuaggio si unisce a me. Quando il taglio è finito, attira la curiosità di una coppia di signori olandesi: lui vuole sapere se può fidarsi. Approvato.

Pago 250 bath, una cifra che per il posto in cui mi trovo non è poi così alta, soprattutto considerando la cura e l’attenzione ricevute. Prima di uscire, una signora che lavora lì ci fa accomodare su un divanetto e ci offre acqua fresca e biscotti. Un gesto semplice, ma che racconta tanto della gentilezza di queste persone.

Fuori, il forno di Bangkok ci inghiotte di nuovo. Ci dirigiamo verso il lungofiume, attraversando vicoletti stretti, pieni di vita, odori e rumori della vera Bangkok. Arrivati al fiume resistiamo pochi minuti: quaranta gradi, sole a picco. Sulla via del ritorno ci fermiamo in un minuscolo negozio per una centrifuga di carote. Non c’è spazio per sedersi, quindi rimango all’esterno, sorseggiando la mia bevanda.

È allora che un suono mi cattura: dal vicoletto accanto arriva “’O Sole Mio” da una radio. Per un attimo non sono più in Thailandia: mi sento nella mia amata Napoli. Guardo e vedo un ragazzo e un signore più anziano cucinare per strada. Qui, questa è la normalità. Bangkok è anche questo: contrasti, sorprese, frammenti di mondi diversi che si incontrano nello stesso istante.

Mentre torniamo verso l’hotel per prendere gli zaini, il mio sguardo viene catturato da una grande mappa della Thailandia appesa fuori da un’agenzia di viaggi. Alcuni punti bianchi segnano località lungo il paese e, senza neanche accorgermene, mi fermo a studiarla.
So che il mio obiettivo è arrivare fino al Golden Triangle, percorrendo la spina dorsale del paese tutta via terra. Fino a quel momento avevo in mente un piano semplice: da Ayutthaya salire su un treno notturno diretto a Chiang Mai. Ma quella mappa, con i suoi nomi e le sue linee, sembra voler raccontare un’altra storia. Mi accorgo che potrei deviare, fermarmi in luoghi che non avevo considerato, lasciarmi sorprendere da tappe inattese.
Scatto una foto alla mappa, quasi fosse un appunto di viaggio segreto, e proseguo con Andrea verso l’hotel.

L’addio ad Andrea e il cambio di rotta


Prendiamo gli zaini e ci avviamo sulla strada principale, appena oltre la Khaosan Road. Andrea chiama un Grab per raggiungere l’aeroporto: destinazione Krabi, verso sud. Quando arriva il taxi, ci abbracciamo. Ci salutiamo con un sorriso. Sono stati giorni leggeri e piacevoli, e ora le nostre strade si separano.

Rimasto solo, convinto di andare verso Ayutthaya, la mappa riaffiora nella mente come un richiamo. Cambio idea. Apro l’app e chiamo un Grab, ma questa volta imposto come destinazione la stazione dei bus New Southern Bus Terminal (Sai Tai Mai): voglio tentare la sorte e raggiungere Kanchanaburi.

Non ho prenotato un posto dove dormire, e questa mancanza di certezze mi regala una libertà assoluta. È un’improvvisazione che mi accende l’adrenalina. Mi siedo sul sedile posteriore del taxi senza sapere se troverò un bus, senza avere idea di dove finirò quella sera.
Eppure, non provo alcuna preoccupazione: quei punti interrogativi mi attraggono, mi invitano ad andare oltre.

Con questo spirito di libertà lascio Khaosan Road, esattamente dallo stesso punto in cui ero arrivato.

Verso Kanchanaburi senza certezze

Arrivato alla stazione dei bus, mi guardo intorno alla ricerca della biglietteria giusta. Ce ne sono tante, ognuna con destinazioni diverse, ma di Kanchanaburi nemmeno l’ombra.
Salgo al primo piano sperando di trovarla, ma lì ci sono solo piccoli ristorantini e negozietti. Torno al piano terra e chiedo indicazioni a una ragazza che lavora lì. Prova a spiegarmi, ma lo fa in modo incerto, quasi come se non fosse sicura nemmeno lei.

È in quel momento che una signora più grande, con passo deciso e voce ferma, interviene spiegandomi esattamente dove devo andare. Finalmente ho un punto di riferimento. Scopro che il biglietto si paga direttamente sul bus.

Esco e mi dirigo verso i gates. Istintivamente cerco i classici autobus grandi, ma poi noto che il mio è molto più piccolo: una via di mezzo tra un bus e un minivan. Sul vetro anteriore c’è una scritta in thailandese, impossibile da capire per me, quindi mi avvicino all’autista, che era appoggiato fuori dal mezzo, e gli chiedo se sia quello per Kanchanaburi.
Lui mi guarda e annuisce. Trovato!

Chiedo il prezzo: 150 Bath (circa 4 euro). Un affare, se penso che in taxi avrei speso almeno 2.500 Bath (circa 70 euro). Salgo e mi accomodo su una poltroncina singola, comoda quanto basta per affrontare le tre ore di viaggio.

Guardo attorno: sono l’unico straniero, tutti gli altri sono local. Questo mi riempie di gioia: sto davvero iniziando a sentire l’essenza del viaggio.

L’autista sale, mette in moto e partiamo. Indosso le cuffie, faccio partire la musica e mi lascio cullare dal movimento del mezzo. Immerso nelle canzoni di Gabriele Esposito, giovane cantautore napoletano, osservo il mondo che scivola oltre il finestrino. La Thailandia si mostra in scorci di campagna, strade polverose e piccole botteghe che sembrano ferme nel tempo. Sento crescere dentro me una sensazione di libertà e pace che mi avvolge completamente.

Facciamo qualche fermata intermedia, finché, dopo quasi tre ore, l’autista grida: “Kanchanaburi!”.
Le persone iniziano a scendere una alla volta: chi prende un tuk-tuk, chi cammina, chi viene accolto da qualcuno. Io invece non ho nessuna direzione precisa: non ho prenotato un posto per la notte.

Recupero il mio zaino dal lato del bus e mi sposto sotto la pensilina della stazione. Dopo pochi istanti, mi si avvicina un uomo, autista di tuk-tuk. In inglese mi chiede se voglio che mi porti in hotel, e aggiunge: “Let’s go to the hotel”. Gli spiego che non ho prenotato nulla e non so dove andare.

Un resort trovato per caso

Lui sorride e mi racconta che una sua amica gestisce un piccolo hotel fuori da una delle vie principali. Telefono alla mano, la chiama e mi dice che il prezzo dovrebbe essere tra 500 e 600 Bath per notte (circa 15 euro). Per portarmi lì, mi chiede 100 Bath.

Accetto, ma con una condizione: se l’hotel non mi piace, mi accompagnerà in un altro senza chiedermi soldi in più. Lui annuisce.

Saliamo sul tuk-tuk e partiamo. L’aria della sera mi investe il viso mentre attraversiamo le strade di Kanchanaburi. Qualche ora prima non sapevo nemmeno che esistesse questo posto, e ora eccomi qui: da solo, su un tuk-tuk, guidato da uno sconosciuto verso un hotel che non ho nemmeno prenotato e gestito da un’altra sconosciuta. E mi piace così. Sto imparando a fidarmi delle persone, anche se hanno una cultura totalmente differente dalla mia, e capisco che questa sarà una delle cose più belle di tutto il viaggio.

Dopo circa un quarto d’ora ci fermiamo davanti alla struttura. Lascio lo zaino sul mezzo, in attesa di vedere com’è il posto.

Varco il cancello e mi trovo davanti a un resort delizioso: una decina di appartamenti al piano terra, ognuno con un piccolo patio, e in fondo una piscina che riflette la luce. Mi piace subito.

Parlo con l’amica dell’autista e provo a trattare sul prezzo. Lei mi mostra che su Booking costa 600 Bath, ma per accontentarmi mi propone 550 Bath. Accetto con un sorriso e prenoto per una notte.

Vado a recuperare lo zaino, pago e saluto l’autista. La signora mi accompagna all’appartamento e mi consegna le chiavi. Entro, prendo ciò che mi serve dallo zaino e mi fiondo sotto la doccia per lavare via la stanchezza della giornata.

Dieci minuti di relax sul letto, e poi sono già pronto: è ora di esplorare.

Il night market e la scoperta della Ferrovia della Morte

Ormai è sera, e decido di dirigermi verso il night market della città. Una camminata di una ventina di minuti, perfetta per sgranchirmi le gambe.
Kanchanaburi non è Bangkok, e si vede: le strade sono più tranquille, i rumori più ovattati, la gente meno frenetica. Qualche bar qua e là illumina la via, e ogni tanto incontro un 7-Eleven o altri minimarket locali.

Attraverso un paio di vicoli scuri e mi ritrovo davanti al mercato notturnoNon è enorme, ma ha quel fascino intimo che mi piace. Inizio a girare tra le bancarelle e mi fermo da un venditore che prepara sushi al momento: tra i 5 e i 15 Bath a pezzo. Un affare.
Proseguo il giro e mi concedo un dolce da un’altra bancarella e uno squisito succo di spremuta d’arancia, lasciandomi avvolgere dagli aromi che riempiono l’aria.

Pochi turisti, per lo più local. Ed è così che, mentre passeggio, inizio a cercare informazioni su cosa visitare in città. Mi imbatto nella storia della Ferrovia della Morte.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, le forze giapponesi che occupavano la Thailandia avevano bisogno di una via di approvvigionamento sicura per le truppe impegnate in Birmania (oggi Myanmar). Le alternative erano due:

  • Via mare, troppo rischiosa per via degli attacchi aerei e sottomarini alleati.
  • Via terra, ma senza una linea ferroviaria diretta.

La soluzione fu brutale: costruire una ferrovia di oltre 400 chilometri attraverso giungle e terreni impervi. Un’opera completata in meno di un anno e mezzo, a un costo umano devastante. Migliaia di prigionieri di guerra e lavoratori asiatici persero la vita, ed è per questo che ancora oggi porta quel nome tragico.

Scopro che, proprio dietro al night market, si trova la stazione dei treni di Kanchanaburi. Ci passo, leggo gli orari e scatto qualche foto: domani voglio andare a Hellfire Pass, dove c’è un museo dedicato a chi ha sofferto e perso la vita su quella linea.

La quiete della sera

Riprendo la strada verso il resort, riattraversando il mercato. Quasi arrivato, passo davanti a un Lotus’s Go Fresh, un minimarket simile al 7-Eleven (ma senza quella tipica musichetta così familiare all’ingresso), ed entro per prendere qualcosa per la colazione del giorno dopo.
La ragazza alla cassa mi chiede da dove vengo, e ci scambiamo qualche chiacchiera veloce. Quando esco, mi saluta con un sorriso genuino: la normalità qui, in terra Thai.

Proseguo verso il resort. Lungo la strada, le ragazze che lavorano nei bar cercano di attirarmi dentro, ma rispondo con un sorriso e tiro dritto. Arrivato, saluto la signora alla reception e mi dirigo al mio appartamento.

Fuori, nel piccolo patio, c’è un tavolino con una sedia. Mi siedo e resto lì, per qualche minuto, ad ascoltare il silenzio e a respirare la pace che mi circonda e ripensavo a come, poche ore prima, questo luogo non era nemmeno nei miei piani. Forse è proprio questo il bello del viaggio: lasciarsi sorprendere, concedersi di cambiare direzione, accettare che la strada giusta non sia sempre quella tracciata in partenza. Poi rientro.
Doccia veloce e mi infilo a letto.

Ripenso alla giornata: è stata emozionante. Non ho nessuno con cui condividere queste sensazioni, ma non mi pesa. Anzi, scopro che viaggiare da solo mi costringe a vivere e assimilare quasi in tempo reale ogni momento in modo più profondo.
Ed è con questa nuova consapevolezza che, lentamente, mi addormento.

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sono Vittorio

e ho deciso di raccontare il mio viaggio in solitaria attraverso l’Asia, zaino in spalla e spirito d’avventura.

Dopo anni di lavoro tra uffici e, di tanto in tanto, in giro per il mondo, ho sentito il bisogno di ritrovare un po’ me stesso. Così, nel 2025, ho preso un volo e ho attraversato Singapore, Malesia e Thailandia in un mese.

Questo blog nasce per condividere emozioni, errori, scoperte e ispirazioni.

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