27 visite
Parto da Kanchanaburi per raggiungere Ayutthaya, ma prima mi immergo nella spiritualità del Wat Tham Suea e del Wat Tham Khao Noi. Tra scalinate sotto il sole, statue dorate e viste mozzafiato, il viaggio si trasforma in un’avventura fatta di sorrisi, incontri inaspettati e riflessioni profonde. Gli imprevisti mi accompagnano, ma scopro che lasciarsi trasportare è il vero cuore del viaggio.
Una partenza infuocata da Kanchanaburi
Inizia una nuova giornata infuocata a Kanchanaburi. Dopo colazione e una doccia veloce, preparo lo zaino: oggi è il giorno della partenza per Ayutthaya.
Quando esco nel patio incontro le ragazze delle pulizie, che mi salutano con quel sorriso gentile che ormai è diventato parte della mia quotidianità in terra Thai. In reception chiedo alla signora se posso lasciare lo zaino fino al primo pomeriggio. Con la sua solita cortesia mi dice di sì.
Wat Tham Suea: la scalata al Buddha dorato
Il bus parte alle 15:30, ma prima voglio concedermi una visita al Wat Tham Suea, il “Tempio della Grotta della Tigre”. Situato a una ventina di chilometri dalla città, il tempio è famoso per la sua immensa statua dorata del Buddha, visibile da lontano, e per la grotta un tempo usata dai monaci per la meditazione. La salita conta ben 157 gradini, oppure, in alternativa, c’è una funivia. Dalla terrazza si gode una vista mozzafiato sul fiume Kwai e sui campi verdi che lo circondano. Accanto sorge anche il Wat Tham Khao Noi, un elegante tempio cinese con una pagoda a sette piani.
Prenoto un Grab e mi faccio portare lì. Ripercorro strade già viste la sera prima: riconosco perfino il campeggio illuminato che avevo intravisto da lontano. Pian piano lasciamo la città, attraversiamo il ponte sul fiume Mae Klong e ci immergiamo nella natura. Lungo la strada noto delle costruzioni basse in mezzo al verde, senza recinzioni. Non capisco cosa siano, così chiedo all’autista: mi spiega che si tratta di un cimitero thailandese. Rimango sorpreso, non ne avevo mai visto uno prima.
Dopo una decina di minuti arriviamo alla collina dei templi. Il piazzale del parcheggio è immenso e vuoto. Di fronte a me, la scalinata con i suoi 157 gradini. La funivia è in manutenzione: mi tocca salire a piedi. Sotto il sole cocente, ogni scalino sembra diventare doppio. Con un respiro profondo dopo l’altro, affronto la salita.
In cima, mi accoglie la visione straordinaria del Chin Prathanporn, una statua dorata di Buddha alta 18 metri e larga 10. È imponente. Nonostante il caldo e il sudore, un brivido mi attraversa la schiena. Resto lì, immobile, ad ammirarlo per diversi minuti. Il Buddha è nella posizione del Vitarka Mudra, il gesto che simboleggia l’insegnamento e la trasmissione della conoscenza.
Mi inoltro poi nel complesso: statue di animali – tigri, un’aquila, un pavone – e la Grotta della Tigre, un tempo rifugio dei monaci, oggi santuario con statue e altari. Poi entro nella pagoda a sette piani, ogni livello circolare, con statue buddiste e piccole finestre che incorniciano il paesaggio. Man mano che salgo, la vista diventa sempre più sorprendente, fino all’ultimo piano, da cui respiro un orizzonte senza fine.
Uscito dalla pagoda, mi dirigo verso il vicino Wat Tham Khao Noi. La sua pagoda, anch’essa di sette piani ma più regolare, mantiene la stessa ampiezza fino in cima. Anche da lì la vista è spettacolare: campagna, fiumi e templi che si perdono all’orizzonte.
La discesa e l’attesa sotto il sole
Dopo quasi due ore di visita, scendo la lunga scalinata. Questa volta il piazzale è affollato: sono arrivati un paio di autobus carichi di turisti. Percorro la parte cinese del complesso, passo davanti a un piccolo tempio abbandonato con statue logorate dal tempo e a una vasca d’acqua colma di carpe colorate.
Controllo l’orologio: è tardi, devo rientrare in città per recuperare lo zaino e raggiungere la stazione. Provo a prenotare un Grab, ma non ce n’è nemmeno uno disponibile. All’uscita del complesso trovo solo due abitazioni: davanti a una, una signora pulisce con calma, unica presenza in quell’angolo silenzioso. Mi guardo intorno, nessun altro. Così mi siedo su un muretto, sotto il sole cocente, lo sguardo fisso sul telefono con l’app aperta, in attesa che qualcosa si muova. Passa un quarto d’ora, interminabile, finché finalmente compare uno scooter disponibile. Non ho scelta: sono già le 14:15, il tempo stringe e rischio di perdere il bus.
Un ritorno a Kanchanaburi a tutta velocità
Il rider arriva dopo una decina di minuti. Salgo in sella e partiamo. L’aria calda mi accarezza il viso mentre il paesaggio scorre veloce. Passiamo davanti al cimitero immerso nel verde e scorgo in lontananza la testa di un drago scolpito che domina una collina: è il Wat Ban Tham, il Tempio del Drago. Vorrei fermarmi, ma non c’è tempo. Mi riprometto di tornare un giorno.
Arrivo al resort intorno alle 15. Saluto il rider, recupero lo zaino e ringrazio la signora della reception, che ricambia con un sorriso e un leggero inchino. Subito dopo prenoto un Grab, questa volta un’auto: ho bisogno di spazio per lo zaino.
Il viaggio verso Ayutthaya: bus e imprevisti
Pochi minuti e sono alla stazione degli autobus. Mancano solo 15 minuti alla partenza. Trovo il bus, parlo con l’autista, stivo lo zaino e compro qualcosa da mangiare a un piccolo chiosco lì accanto.
Il mezzo è grande, comodo, un vero bus. Ma non andrà diretto ad Ayutthaya: dovrò cambiare a Suphanburi. Non so se troverò la coincidenza, ma non ho dubbi: pago il biglietto, salgo a bordo e mi lascio trasportare. La meta la conosco, il percorso no.
L’autobus parte, e con lui saluto Kanchanaburi. Dal finestrino vedo il paesaggio cambiare: le costruzioni e i negozi lasciano spazio a campagne sconfinate, colline e templi buddisti sparsi qua e là, come sentinelle silenziose immerse nella natura.
Dopo circa un’ora e mezza di strada e qualche fermata casuale, l’autobus si ferma e l’autista ci fa scendere tutti in mezzo a un crocevia di un piccolo villaggio. Recupero lo zaino e rimango spaesato su quello stradone, senza indicazioni. Apro Google Maps: sono a U Thong, ma mancano ancora una trentina di chilometri per arrivare a Suphanburi. Eppure l’autista si limita a farmi segno di scendere. Confuso, gli mostro il biglietto. Lui sorride e mi spiega a gesti che dovrò aspettare un minivan che mi porterà a destinazione.
Nessuno mi aveva detto di questa sosta forzata, così cerco di non allontanarmi dalle persone che erano con me sull’autobus. Alcuni sono già arrivati alla loro destinazione, altri aspettano, come me. Dopo una decina di minuti, finalmente arriva un minivan. I pochi passeggeri rimasti iniziano a salire. Mostro il mio biglietto all’autista e lui mi fa cenno di entrare.
Viaggio in minivan: un’esperienza di comunità
Il mezzo è piccolo e stretto, e non c’è spazio per il mio zaino. È comodo da portare in giro, ma ingombrante per un minivan così. Fortunatamente sono l’unico ad averne uno grande: gli altri, tutti thailandesi pendolari, hanno piccoli zainetti o addirittura nulla. Riesco a sistemarlo su un supporto dietro al sedile passeggero, accanto all’autista, e lo assicuro con una spallina al poggiatesta per evitare che cada all’indietro.
Mi sento ingombrante, fuori posto. Mi scuso con gli altri, ma invece di fastidio trovo sorrisi e mani tese per aiutarmi a sistemarmi. Nessuno sbuffa, nessuno alza gli occhi al cielo. Questo popolo, ancora una volta, mi regala un insegnamento prezioso: serenità, pazienza e accoglienza.
Guardo i volti attorno a me. Sono persone che probabilmente tornano a casa dopo una giornata di lavoro o di scuola. Invece di essere stanchi, nervosi o irritati per il viaggio lungo e scomodo, sono tranquilli e sorridenti. E io, seduto lì con il mio zaino, mi sento meno straniero e più parte della loro comunità.
Un equilibrio tra corpo, mente e anima
La mia anima si riempie di gioia. Sento di essere nel posto giusto, al momento giusto. Vivo un equilibrio nuovo, profondo, tra corpo, mente e anima. Non è facile spiegarlo a parole, ma chi ha provato questa sensazione sa bene di cosa parlo: è come un dono, un’armonia silenziosa che ti attraversa e che augurerei a chiunque di sperimentare almeno una volta nella vita.
Un improvviso sobbalzo, causato da una buca sull’asfalto, mi strappa ai miei pensieri. Il minivan continua la sua corsa, riportandomi al viaggio del corpo, mentre dentro di me continua quello dell’anima.
Arrivo a Suphanburi e il secondo minivan
Usciamo da U Thong – di cui, ovviamente, non sapevo nemmeno l’esistenza, così come lei non sapeva della mia – e nella mezz’ora di strada attraversiamo qualche villaggio, dove il minivan effettua alcune fermate. Intorno alle 17:30 arriviamo finalmente alla stazione dei bus di Suphanburi.
Scendo, recupero lo zaino e mi sgranchisco le gambe, poi subito mi metto a cercare il mezzo per Ayutthaya. Giro tra le piazzole, tra le scritte quasi tutte in thai, finché non scovo in piccolo la parola Ayutthaya. Non è scritta su un bus, ma su un altro minivan. Capisco subito che mi aspetta un altro viaggio su quei piccoli e accoglienti mezzi.
Parlo con l’autista, che mi dice che parte tra dieci minuti. Il tempo di andare in bagno, fumarmi una sigaretta, pagare e salire a bordo. Dentro noto subito che questo minivan è molto più sistemato rispetto al precedente, che era piuttosto umile. I sedili sono in pelle, molto comodi, e ci sono luci dappertutto: davvero carino. La disposizione è la stessa, quindi sistemo lo zaino come avevo fatto prima.
Incontro con la venditrice di biglietti della lotteria
Il minivan parte semivuoto e lascia Suphanburi alle spalle. Mi aspettano circa un’ora e mezza di strada. Durante il tragitto, l’autista si ferma più volte per far scendere o salire passeggeri. A metà strada arriviamo a Sena, il villaggio più grande a circa mezz’ora da Ayutthaya. Alcuni passeggeri scendono, altri salgono, tra cui una signora con una valigetta sottile e grande.
Si accomoda accanto a un sedile vuoto e la apre: dentro ci sono dei biglietti numerati. Con curiosità le chiedo di cosa si tratti. Lei mi spiega che sono biglietti della lotteria che vende. Li avevo già visti a Kanchanaburi, ma non avevo capito cosa fossero. Mi racconta che ogni giorno si sposta da Ayutthaya a Sena per cercare di venderli. Non parla benissimo inglese, ma è curiosa di sapere da dove vengo e cosa voglio visitare. Così, con l’aiuto del traduttore sul telefono, facciamo una piacevole chiacchierata fino a destinazione.
Benvenuto ad Ayutthaya e l’incontro con Mr. Manop
Arriviamo ad Ayutthaya intorno alle 19:30. Non scendiamo in una vera stazione dei bus, ma lungo una strada semivuota e buia. La signora mi chiede dove alloggerò. Avevo visto su Booking una struttura che sembrava accogliente e l’avevo salvata, ma non avevo ancora prenotato. Lei mi rassicura dicendo che è una buona scelta e che si trova proprio lì vicino.
Mentre sto completando la prenotazione sull’app, la signora si scusa di non potermi ospitare a casa sua: vive con la figlia e due nipoti in una casa piccola. Io la rassicuro che non deve preoccuparsi, anche perché non le avevo chiesto nulla e potevo tranquillamente permettermi una stanza. Lei mi dice che le avrebbe fatto piacere ospitarmi, forse perché le sembro una brava persona o forse spinta dalla curiosità di una differenza culturale. Le sorrido, unisco le mani davanti al petto e faccio un leggero inchino come fanno loro. Lei ricambia felice.
Le chiedo soltanto se sa indicarmi dove prendere il bus per Chiang Mai, la mia prossima tappa prevista tra due giorni (potrei arrivarci anche prendendo il treno notturno, ma ormai mi sono affezionato ai bus). Mi sto portando avanti e inizio a rendermi conto che qui tutto gira intorno alle stazioni dei bus: invece di perdere tempo a spulciare siti o a fare la spola tra una stazione e l’altra mentre visito un luogo, preferisco chiedere subito appena arrivo. È un metodo che adotterò anche nelle tappe successive facendomi risparmiare tempo. Lei mi spiega che la partenza non è da lì, ma da un’altra stazione della città. Proprio in quel momento si avvicina un uomo sulla cinquantina che si offre di darmi maggiori informazioni. È Mr. Manop, un autista di tuk tuk. Così saluto la signora, la ringrazio nuovamente per la gentilezza e la lascio finalmente libera di andare a casa.
L’accordo con Mr. Manop e l’arrivo in hotel
Mi era stato detto da un mio amico che aveva visitato Ayutthaya che, siccome l’area dove si trovano templi e aree sacre buddiste è piuttosto ampia, sarebbe stato opportuno affidare la visita a un tuk-tuk, contrattando il prezzo per l’intero giro in giornata. Mr. Manop è proprio uno di quegli “accompagnatori”. Prima mi spiega con precisione dove prendere il bus per andare a Chiang Mai, e poi mi fa la sua offerta per il giro di Ayutthaya: accompagnarmi subito in hotel e, il giorno seguente, venirmi a prendere per visitare insieme le attrazioni turistiche della città. Resterà con me fino al termine del tour, per poi riaccompagnarmi in hotel intorno alle 14. Il tutto per 500 baht (meno di 15 euro).
Io accetto, ma a una condizione: che includa anche il passaggio alla stazione dei bus da cui partirò per Chiang Mai 2 giorni dopo. Lui sorride e accetta. Con una stretta di mano l’affare è fatto.
Salto sul suo tuk tuk, sistemo lo zaino e, prima che parta, mi scatto un selfie: forse uno dei più rappresentativi del viaggio. Mentre Mr. Manop mette in moto, penso a tutto il percorso che mi ha portato fino a qui. È stato talmente pieno di imprevisti che mi sembra davvero di aver vissuto una puntata di Pechino Express.
Arriviamo in hotel. Scendo, lo saluto e fissiamo l’appuntamento per le 8:30 del mattino seguente.
Chommuang Guest House e il Night Market
Così entro nella Chommuang Guest House, una piccola e graziosa struttura. La reception è all’aperto, proprio come a Kanchanaburi, e questa cosa mi piace subito. Suono il campanello e subito appare la proprietaria: una signora sulla cinquantina, sorridente, che mi chiede il passaporto per la registrazione. Le faccio i complimenti per la struttura e lei mi ricambia con il solito sorriso, mani unite davanti al petto e leggero inchino, gesti che ormai fanno parte della mia quotidianità qui. Pago per due notti e mi spiega che se si raggiunge un numero minimo di partecipanti, il giorno seguente si potrebbe fare un giro in barca sul fiume Pa Sak al tramonto, con soste nei templi più caratteristici. Il costo è conveniente: soli 200 bath, circa 5 euro. Mi segna subito nella lista e mi dice che la conferma arriverà dopo il giro di Ayutthaya con Mr. Manop.
Prima di accompagnarmi in camera, mi mostra i gattini residenti della struttura, piccole palline di pelo che si aggirano curiose. Mi apre la stanza e mi saluta: ripeto gesti ormai familiari. Apro lo zaino e tiro fuori l’essenziale per una doccia e un cambio. Dopo la doccia, pronto per uscire, guardo l’orologio: sono le 20.30. L’aria è serena e tranquilla. Apro Google Maps e mi dirigo verso il Night Market della città. Qui sembra esserci ancora meno gente che a Kanchanaburi; lontano dal caos della capitale, cammino lentamente, godendomi la pace.
Una cena al Night Market
Dopo una decina di minuti arrivo al night market, piccolo ma vivo, un mix tra turisti e locals. Faccio un giro e compro un succo d’arancia fresco. Poi trovo una bancarella gestita da una famiglia e mi siedo: tavolini bassi e sedie di plastica. La ragazzina, circa 12 anni, mi porge il menu. Scelgo un’omelette di ostriche, fatto con uova, ostriche fresche e spesso accompagnato da una salsa, e un pad see ew, un popolare piatto di noodles stir-fry della cucina thailandese. È fatto con noodles larghi di riso, verdure (come cavolo e cime di rapa), uova e una salsa a base di soia. Mangio lentamente, grato per la giornata appena trascorsa. La famiglia thailandese che gestisce il locale ne approfitta per cenare accanto a me e un cane randagio aspetta paziente la sua porzione. Mi godo il fresco della serata e la pace, in silenzio, solo con me stesso.
Finito di mangiare, pago 80 bath, circa 2 euro, e rifletto: anche in un night market “turistico” i prezzi restano bassi. Questo mi fa pensare che in Thailandia, anche le persone più povere, probabilmente non soffrono la fame. Mi conforta pensare che, in questo paese, nessuno sembra essere lasciato indietro o trascurato. Con questa convinzione percorro di nuovo gli stradoni semivuoti verso la guesthouse, accompagnato dai cani randagi in lontananza. Arrivato, saluto la signora e salgo in camera. Passo accanto al grande terrazzo che affaccia sulla strada: una coppia si gode il relax su delle amache. Li saluto col pensiero ed entro.
Riflessioni di un viaggiatore
Sono le 22, non è tardi, ma la giornata mi ha stremato. Mi stendo a letto e la mia mente viaggia da sola portandomi a fare delle riflessioni: quando decidi di viaggiare davvero e non solo fare il turista, gli imprevisti e i cambi di piano ti costringono ad adattarti, a lasciarti andare, riuscendo a superare i propri limiti. Scorri con gli eventi, senza opporre resistenza: il risultato è che andrà tutto bene. Opporsi creerebbe solo ostacoli inutili.
Sentirsi veramente vivi, parte integrante di qualcosa di più grande, senza imposizioni, nasce solo dalla decisione di lasciarsi trasportare dalla vita. Non sempre puoi avere il controllo su tutto. Lasciarsi andare con tutti i sensi e in tutti i sensi, vivere pienamente: questo è il senso del viaggio probabilmente anche della vita.
Grato per tutto ciò che ho vissuto, con questo spirito nuovo e consapevole, mi abbandono al sonno, pronto a scoprire il domani.





































Lascia un commento