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Inizia una nuova giornata a Pai tra villaggi etnici, il Grande Buddha Bianco e il suggestivo Santichon Village. Tra incontri inaspettati, piccoli imprevisti e scorci silenziosi lontano dai turisti, il viaggio verso nord continua tra emozioni e dettagli che restano impressi.
Sveglia a Pai e la ricerca di un autista per esplorare i dintorni
La luce morbida del mattino filtra dalle tende sottili della mia stanza, un chiarore che sembra arrivare da molto più lontano del sole. Forse è Pai, con la sua calma sospesa, a rendere tutto più leggero. Apro gli occhi senza fretta, ancora avvolto nella sensazione della serata precedente, di quel passaggio improvviso dal bungalow all’ hotel dove la ragazza thailandese mi aveva accompagnato. Un gesto gentile, in una notte che sembrava aver preso una brutta piega.
Mi alzo, trascinando i piedi sul pavimento fresco. La doccia è un sollievo che mi riporta in ordine: acqua tiepida, vapore, e il pensiero di una nuova giornata che comincia. Preparo lo zaino con la solita cura, come se ogni oggetto avesse un suo posto nella mia storia di viaggio.
Faccio colazione in camera e poi esco. Fuori, l’aria è frizzante. Accendo una sigaretta e mi fermo vicino al patio, osservando Pai che si sveglia piano. Le montagne immerse nella foschia sembrano dipinte da qualcuno che non voleva usare contorni netti.
Mi avvicino alla receptionist, che sorride come se già sapesse che sto per chiederle qualcosa.
«Sai se c’è un autista che potrebbe portarmi in giro stamattina?»
Parlo con quel tono gentile di chi non vuole disturbare, ma spera in un sì.
Lei annuisce, prende il telefono e comincia a fare alcune chiamate. Mentre parla in thai, la guardo gesticolare con naturalezza, come se fosse abituata a risolvere il mondo con una telefonata. Dopo qualche minuto mi fa cenno di avvicinarmi.
«Arriva tra poco. È un mio conoscente.»
Ottimo. Mi farà guadagnare un po’ di tempo. Torno in camera, afferro lo zaino e mi sistemo davanti all’ingresso, in attesa. Mi piace questa sensazione di trovarmi sospeso tra una partenza e l’altra, come se ogni piccolo tragitto avesse un significato.
La macchina arriva qualche minuto dopo. Un pick-up polveroso, con il parabrezza segnato dal sole. L’autista abbassa il finestrino e mi saluta con un cenno amichevole.
Salgo. «Vorrei visitare la comunità Karen, il Buddha Bianco… e poi un villaggio cinese, Santichon Village. Si può fare?»
Lui annuisce con naturalezza, come se quei luoghi fossero vecchi amici che lo aspettano ogni mattina. Trattiamo sul prezzo. Chiudiamo a 10 euro circa.
Chiude lo sportello, mette la marcia.
E così partiamo.
La strada si infila tra colline verdi e campi che brillano sotto il sole giovane del mattino. Pai respira piano dietro di noi, mentre io mi preparo a un’altra giornata di incontri, silenzi, e piccole scoperte.
Una di quelle giornate in cui non sai ancora cosa aspettarti — ed è proprio questo a renderle perfette.
La comunità Karen: le donne dal collo lungo e la storia di un popolo
Prima fermata: il villaggio Karen che raggiungiamo dopo circa venti minuti. Si trova in un luogo isolato, immerso totalmente nella natura. Il driver mi lascia all’esterno ed io entro con passo lento, quasi in punta di piedi. Dentro non c’è nemmeno un turista, solo le famose donne dal collo lungo, chiamate così per gli anelli di ottone che portano al collo fin dai 4-5 anni: simboli di bellezza che non allungano realmente il collo, ma spingono le spalle verso il basso, creando quell’effetto così particolare.
La comunità Karen (o Kariang, Yang o Kayin) rappresenta uno dei gruppi etnici più numerosi e significativi tra le minoranze delle tribù delle colline nel nord della Thailandia. Originari principalmente del Myanmar, dal 1949 – a causa del conflitto tra l’esercito birmano e l’Unione Nazionale Karen (KNLA) – decine di migliaia di Karen hanno attraversato il confine thailandese. Oggi la Thailandia ospita oltre 80.000 rifugiati birmani, molti dei quali Karen, distribuiti in nove campi profughi lungo il fiume Moei. La maggior parte si concentra nelle province montane del nord: Chiang Mai, Chiang Rai, Mae Hong Son, Phayao e Tak, fino ai confini con Myanmar e Laos (incluso il Triangolo d’Oro).
L’impatto è sorprendente. Vedere queste donne dal vivo, con quegli anelli che sembrano mutare la forma del loro corpo, è qualcosa che colpisce davvero. Il villaggio vive visibilmente di turismo: le donne sono lì come “attrazioni”, sedute mentre tessono le loro tele colorate che poi vendono nel piccolo mercato interno. Non è un’esperienza autentica in senso profondo, non c’è molto contatto reale, ma vederle così da vicino vale comunque il tempo dedicato.
Il Grande Buddha Bianco e l’incontro con un giovane viaggiatore inglese
Dopo un quarto d’ora lascio il villaggio e torno alla macchina. Direzione: il grande Buddha Bianco (Wat Phra That Mae Yen).
Arrivato lì, l’autista mi fa scendere in un parcheggio enorme e completamente desolato. Davanti a me compaiono circa trecento scalini che portano al grande Buddha, che appare sempre più imponente a ogni passo. Fortunatamente anche qui ci sono pochissimi turisti. Quando arrivo quasi in cima e cerco l’inquadratura giusta per una foto, noto un ragazzo seduto alla fine della scalinata, sulla destra. All’inizio penso che mi rovinerà lo scatto; invece, quando guardo la foto, mi rendo conto che la sua presenza la rende più bella, come se fosse parte naturale della scena.
Lo raggiungo e lo saluto. È un ragazzo inglese, anche lui in viaggio da solo. Gli dico di aver scattato una bellissima foto in cui compare anche lui. Gliela mostro e gli chiedo se vuole che gliela mandi. Lui sorride, un sorriso grande, sincero, e accetta. Così ci mettiamo a parlare. Mi racconta che grazie al suo lavoro riesce a liberarsi per 3-4 mesi all’anno, e questo gli permette di viaggiare per il mondo ad appena 24 anni. Gli dico che è davvero fortunato — o forse bravo a crearsi questa fortuna.
Restiamo a parlare per una mezz’ora, immersi in quella brezza leggera che arriva dalla collina. A un certo punto gli dico, quasi imbarazzato, che mi scuso per il mio inglese non proprio perfetto.
Lui scoppia a ridere e mi risponde che non c’è nulla di cui scusarsi, anzi mi fa notare che stiamo parlando già da circa mezz’ora e che finora non si è sentito minimamente a disagio. Poi aggiunge una cosa che mi sorprende: mi dice che le persone la cui lingua madre non è l’inglese sono più fortunate, perché sicuramente conoscono almeno un’altra lingua, quella del loro Paese, oltre all’inglese. Una frase semplice, ma che mi fa riflettere su come spesso vediamo i nostri limiti più grandi di quanto siano realmente.
Poi ci scambiamo Instagram e mi faccio scattare anche io qualche foto davanti alla statua alta circa quindici metri. Lo saluto per andare via. Lui invece se la prende con calma, poiché non ha una precisa scadenza sul suo viaggio, e mi dice che sarebbe rimasto a Pai fin quando non avrebbe avuto lo stimolo di cambiare posto.
Santichon Village: un pezzo di Cina tra le colline thailandesi
Torno giù per le scale, rientro in auto e ci avviamo verso il villaggio cinese di Santichon. Durante il tragitto ripenso a quel ragazzo: alla sua libertà, e alla fortuna — o al coraggio — di potersi vivere il mondo così.
Dopo una ventina di minuti arriviamo al villaggio. Anche qui non c’è nessun turista. Pai è un posto dove si fa festa, e probabilmente la maggior parte dei viaggiatori la notte rientra tardi e si sveglia con calma. Meglio così: posso visitare tutto con pace.
Scendo dall’auto: l’aria è caldissima. Comincio a esplorare il villaggio.
Santichon Village, noto anche come Villaggio Culturale Cinese dello Yunnan, è una piccola gemma etnica incastonata nella valle di Pai. Sembra davvero un pezzo di Cina trapiantato tra le colline thailandesi: case tradizionali, tè profumato, quiete ovunque.
Fu fondato negli anni ’40-’50 da soldati e famiglie dello Yunnan che fuggirono dalla rivoluzione comunista di Mao Zedong. Erano membri del Kuomintang, costretti all’esilio. Qui, sulle montagne del nord, portarono tradizioni, lingua e cucina yunnanese. Oggi il villaggio conta circa 2.000 abitanti.
Dopo un’ora abbondante di camminata torno in auto e mi faccio accompagnare alla piccola stazione dei bus di Pai. Il piano è tornare a Chiang Mai e prendere subito un bus per Chiang Rai.
Il ritorno a Chiang Mai e l’imprevisto del biglietto per Chiang Rai
Arriva il minivan e, diversamente dall’andata, l’autista sistema gli zaini sopra il mezzo e li lega con delle corde. Partiamo e dopo un’ora ci fermiamo in quella stessa stazione di servizio dove mi ero fermato anche all’andata. Una breve pausa per permettere ai passeggeri di rinfrescarsi e comprare qualcosa da mangiare, poi si riparte.
Dopo appena venti minuti il minivan si ferma, fa un’inversione di marcia e riprende la strada verso Pai. Nessuno capisce cosa stia succedendo. Dopo un po’ di curve in salita, torniamo di nuovo alla stazione di servizio. L’autista aveva dimenticato dei documenti lì e i negozianti, avendo i suoi contatti, lo hanno avvisato al telefono. Un imprevisto, niente di più.
Ripartiamo. Dopo altre tre ore di strada arriviamo finalmente a Chiang Mai, esattamente nel punto da cui ero partito il giorno prima, alla stazione dei bus.
Scendo dal minivan, recupero lo zaino e mi dirigo verso il terminal poco distante per acquistare un biglietto del bus per Chiang Rai. Voglio continuare il mio viaggio verso nord.
Faccio la fila, attendo il mio turno. Sono le 16.30.
Quando arrivo al banco e chiedo un biglietto, la ragazza controlla sul PC e, con un tono dispiaciuto, mi comunica che per oggi i biglietti per Chiang Rai sono terminati, sia per il pomeriggio che per la sera. Non ho alternative: devo restare un’altra notte a Chiang Mai.
Compro il biglietto per l’indomani mattina, saluto la ragazza ed esco dal terminal.
Apro Booking per vedere se l’hotel dove avevo alloggiato prima di partire per Pai è disponibile. C’è una stanza libera. Prenoto. Apro subito Grab e prenoto anche un’auto.
In meno di cinque minuti sono riuscito a rimettere ordine nell’imprevisto.
I piani sono cambiati, almeno per questa sera. E alla fine… mi fa anche piacere restare qui un’altra notte.
Arriva la macchina. Carico lo zaino e ripartiamo verso l’hotel già conosciuto.
Dopo una ventina di minuti sono di nuovo lì. La ragazza alla reception rimane sorpresa nel rivedermi; le spiego l’accaduto, rifaccio il check-in, prendo la chiave e salgo in camera.
Poso lo zaino, vado al 7-Eleven accanto a prendere qualcosa da mangiare e ritorno in stanza. Doccia, relax. Intorno alle 19 sono già fuori, a vagare tra le strade tranquille di questa perla del nord della Thailandia.
Serata a Chiang Mai: rooftop, incontri e la calma della Perla del Nord di notte
Passo di nuovo per Lanna Square, dove i bar iniziano ad aprire. Poi, con la solita fedele abitudine, apro Google Maps e cerco un ristorantino locale. Ne trovo uno a pochi chilometri. Mi faccio accompagnare da uno scooter Grab.
Arrivato, ordino un riso fritto con pollo e una bibita. Semplice e delizioso.
Poi riprendo a camminare nella notte tiepida di Chiang Mai.
Arrivo nei pressi della zona nord-est del fossato e mi metto alla ricerca di un rooftop dove bere qualcosa. I palazzi sono bassi, ma trovo un terrazzo al terzo piano. Salgo le scale ed entro in un posto davvero carino e rilassante.
Oltre a me, c’è una ragazza sola che beve un drink e il proprietario. Ordino qualcosa anche io, poi, incuriosito dai suoi tratti occidentali, gli chiedo da dove viene.
È uno svedese che ha sposato una thailandese. Vive tra Chiang Mai e la Svezia.
Gli dico che secondo me ha fatto un’ottima scelta di vita. Lui annuisce convinto, senza esitazioni.
Mi godo il drink in pace, osservando dall’alto le strade e qualche auto che passa lenta. Il tempo qui sembra scorrere più dolcemente.
Dopo una mezz’ora lo saluto, scendo in strada e mi avvio verso l’hotel. È quasi mezzanotte. Domani la sveglia suonerà presto: mi aspetta il bus per Chiang Rai.
Percorro una strada meno trafficata. Regna una calma quasi ipnotica, nessun pericolo, solo quiete. Mi sento libero.
Arrivo nei pressi dell’hotel, mi fermo al 7-Eleven a prendere qualcosa per la colazione e poi mi siedo fuori, al tavolino dell’ingresso dell’hotel, a fumare una sigaretta.
Dopo qualche minuto si siede al tavolino accanto una ragazza di colore. Capisco subito che non è thailandese. Mi chiede com’è andata la serata e iniziamo a parlare.
È una donna inglese, di origini giamaicane. Anche lei viaggia da sola. È letteralmente innamorata della Thailandia, della sua gentilezza e della sua calma.
Mi racconta che rimarrà qualche altro giorno a Chiang Mai per fare delle escursioni. Le dico che tra qualche ora prenderò un bus per Chiang Rai.
Dopo una decina di minuti ci scambiamo Instagram e ci salutiamo. Ognuno torna alla propria strada.
Risalgo in camera, sistemo alcune cose nello zaino e mi preparo per andare a letto.
Finisce così un’altra giornata piena di emozioni e di incontri:
dal ragazzo inglese che pensavo mi avesse rovinato la foto del Grande Buddha Bianco a Pai, all’imprevisto della sosta forzata a Chiang Mai,
al ragazzo svedese sul rooftop,
fino alla sigaretta condivisa con una sconosciuta fuori dall’hotel.
Mi stendo sul letto e chiudo gli occhi.
Domani mi aspettano un altro viaggio e nuove avventure verso l’ignoto.











































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