4 visite
Certe giornate non hanno fretta di finire. Si allungano, si aprono, ti attraversano con lentezza, come se ogni passo volesse lasciare un segno. Chiang Rai mi accoglie così: tra templi silenziosi, incontri inattesi e una sera che scende piano, ricordandomi perché viaggio.
Da Chiang Mai verso nord
Inizia l’ultima mattina a Chiang Mai. La città è ancora avvolta da quella calma che sembra respirare insieme a te, come se sapesse che è arrivato il momento di lasciarla andare. Oggi è davvero il giorno dell’addio. Mi sveglio senza fretta, faccio colazione e chiudo lo zaino, quel gesto che ormai è diventato una piccola routine quotidiana, quasi un rituale. Scendo alla reception, saluto la ragazza che mi aveva accolto il giorno prima con lo stesso sorriso gentile, poi mi affaccio sulla strada in attesa del Grab che mi porterà alla stazione dei bus.
Il tragitto scorre veloce. La mattina è già calda, e Chiang Mai sembra muoversi nel suo ritmo lento, come se non volesse disturbarmi nei miei pensieri. Dopo una ventina di minuti arrivo alla stazione. Stavolta vado dritto al terminal da cui partono i bus per Chiang Rai. Sulla piattaforma segnata sul mio biglietto ci sono già alcune persone in attesa. Ognuno con il proprio zaino, la propria direzione, il proprio pezzo di mondo in tasca.
Dopo un quarto d’ora arriva il bus. Salgo, mi sistemo al mio posto e preparo cuffie e musica: quasi quattro ore di viaggio verso nord mi aspettano. Dietro di me si accomoda un monaco buddhista, avvolto nella sua tunica arancione, seduto con la calma di chi non corre mai. Metto play. Il motore si accende. Il viaggio ricomincia.
Il primo incontro con Chiang Rai
Dopo circa tre ore e mezza arriviamo a Chiang Rai. Scendo dal bus, mi dirigo al bagno—come sempre, prima tappa obbligata—e poi inizio la ricerca di un posto dove dormire. Su Booking trovo un hotel molto bello. Prenoto un Grab, il tempo di un click e sono già in auto.
L’hotel è ancora più bello di quanto sembrasse nelle foto. Faccio il check-in, salgo in camera e resto per qualche secondo semplicemente a guardare attorno: una stanza stupenda, luminosa, con un terrazzo che affaccia sul retro, dove regna un silenzio che sembra voler stringere la mano alla mia stanchezza.
Il tempo di sistemare lo zaino ed esco subito. Fuori c’è un caldo asfissiante, diverso da quello di Chiang Mai. Qui la città sembra più distesa, meno caotica. Camminando decido di andare direttamente alla Torre dell’Orologio dorata, simbolo di Chiang Rai, che brilla come una scultura intrisa di luce.
Poi arriva la fame. Inizio a cercare un ristorante, ma è quasi tutto chiuso. Giro senza meta finché, per caso, in una stradina vedo uno spazio enorme al piano terra di una palazzina: tavoli, sedie e diverse persone che mangiano. Non sembra un ristorante, ma lo è eccome. Entro. A destra c’è un enorme banco con dietro 5-6 donne che cucinano senza sosta, in un ritmo perfetto.
Chiedo se posso sedermi. Una delle signore mi porta il menu: ci sono pietanze che non ho mai visto, ma per fortuna ci sono le immagini. Le chiedo un piatto tipico. Lei mi sorride e mi consiglia il Khao Soi, un simbolo della cucina del nord.
Brodo di curry e latte di cocco, noodles all’uovo, noodles fritti croccanti in cima, lime, sottaceti, scalogno. Un equilibrio perfetto tra dolce, salato, piccante e acido.
Assaggio il primo boccone e resto immobile: SQUISITO. Da non crederci. Fino a un’ora prima non sapevo nemmeno che esistesse. Ora è uno dei piatti più buoni che abbia mangiato in Thailandia.
Finisco lentamente, pago, faccio i complimenti alla cuoca e proseguo il mio giro. Mi fermo a bere una birra in un bar vicino, mentre su Google Maps cerco di orientarmi e capire cosa vedere. Continuo a camminare verso il mercato di Chiang Rai. È enorme: cibo, vestiti, oggetti, rumori, profumi. Mi ci perdo dentro.
Templi, silenzi e storie antiche
Mi ritrovo così davanti al Wat Mung Muang, un tempio antico della città, sopravvissuto miracolosamente ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. All’esterno, una statua dorata di Phra Sangkachai, il Buddha grasso che ride, seduto con lo sguardo sereno.
Dentro, il tempio è un’esplosione di rosso porpora, decorazioni, dettagli che catturano l’occhio. La statua del Buddha sul fondo sembra custodire un silenzio che non si può spiegare.
Resto lì per qualche minuto, in una calma che sembra appartenere solo a quel luogo.
Poi riprendo a camminare e vado verso il Wat Phra Kaew, uno dei templi più importanti della città, legato alla storia del Buddha di Smeraldo.
Nel 1434 un fulmine colpì lo stupa principale. La struttura si lesionò e, da uno strato di stucco che si sgretolò, apparve la statua di giada verde destinata a diventare l’immagine sacra più venerata della Thailandia. Quella statua iniziò un viaggio lungo secoli e città prima di arrivare a Bangkok, dove si trova oggi.
Il tempio qui a Chiang Rai, nel frattempo, conserva un’atmosfera pura, intatta. Ci sono giardini ordinati, statue, piccoli angoli di pace. I monaci si muovono silenziosi, qualcuno spazza, qualcuno sistema fiori o offerte.
Cammino lentamente, lasciando che quella tranquillità mi attraversi, come se il viaggio stesso volesse ricordarmi che ogni passaggio ha un ritmo diverso, e che è giusto rispettarlo.
Esco dal complesso del Wat Phra Kaew e mi fermo al 7-Eleven per una sosta rinfrescante. Bevanda fredda in mano, riapro Google Maps. Non troppo lontano, arroccato su una piccola altura, spunta un altro luogo sacro: il Wat Phra That Doi Chom Thong. Sono stanco per il viaggio della mattina e il caldo è quasi insopportabile, quindi decido di prenotare uno scooter Grab.
In dieci minuti sono lì.
Il complesso è silenzioso, raccolto, quasi nascosto dal resto della città. Cammino fino al cuore del tempio: un chedi dorato in stile Lanna, alto circa venti metri, che brilla sotto il sole del pomeriggio. Attorno, statue, decorazioni, piccoli dettagli che raccontano storie antiche.
Poco più in là c’è uno spiazzo di terra dove alcune statue di elefanti sembrano fare da guardiani. Alle loro spalle si trova il Sadu Mueang di Chiang Rai, il vero ombelico della città.
È il punto esatto in cui, secondo la tradizione, il Re Mangrai piantò il primo palo simbolico quando fondò la città nel 1262. Per la gente del nord è un luogo sacro, dove si viene a chiedere protezione prima di un viaggio o a “legare” il proprio khwan, lo spirito vitale, dopo uno spavento o una malattia.
Nel piazzale del tempio alcuni bambini giocano a pallone, mentre un paio di famiglie scattano foto. Dalla collina il panorama è meraviglioso: case in legno, vegetazione fitta, un silenzio che sembra sospeso. Dietro il complesso, una scalinata scende verso un piccolo tempio cinese, il San Chao Pho Doi Thong, incastonato poco più in basso.
Quando risalgo, mi fermo ancora qualche minuto sul piazzale del Wat Phra That Doi Chom Thong.
Il sole sta scendendo, la luce si fa morbida. Il tempo sembra essersi fermato davvero.
Poi, all’improvviso, un pallone rotola fino ai miei piedi. Lo raccolgo e lo restituisco ai bambini che, ridendo, mi ringraziano. Faccio un ultimo giro per osservare ancora una volta il punto simbolico della città, poi inizio a scendere la collina. Attraverso le case in legno: un bambino aiuta un’anziana signora a portare alcune cose dentro casa. Una scena semplice, che mi riporta a un’epoca che qui, forse, non è mai del tutto scomparsa.
Arrivo sulla strada larga ai piedi della collina. Sono stanco nel corpo, sì, ma la mia anima sembra rigenerarsi a ogni passo.
Decido di proseguire verso un altro luogo iconico di Chiang Rai: il Wat Rong Suea Ten (Blue Temple), dall’altra parte del fiume Kok. Prenoto uno scooter Grab e in pochi minuti il driver arriva. Indosso il casco e partiamo.
Lo scooter corre tra le strade tranquille. Sento l’aria calda sul viso, il rumore del motore, la città che cambia intorno a noi. Attraversiamo il ponte sul fiume e, dopo aver imboccato una piccola stradina laterale, il driver si ferma.
Blu, oro e tramonti sul fiume
(il Blue Temple e il tramonto sul fiume Kok)
Scendo, mi tolgo il casco e saluto.
Davanti a me c’è l’ingresso del tempio. Uno spettacolo.
Il colore predominante, un blu intenso, è insolito per i templi thailandesi, tradizionalmente dorati. Quel blu rappresenta la purezza, la saggezza e la vastità del Dharma. L’architettura è impreziosita da sculture elaborate e dai due imponenti Naga blu e oro che fiancheggiano la scalinata, come guardiani mitologici.
Prima di entrare tolgo le scarpe, come segno di rispetto, e varco la soglia.
L’interno è un caleidoscopio: murales ricchissimi che raccontano la vita del Buddha in uno stile quasi psichedelico. Al centro, una statua di Buddha in porcellana bianca alta 6,5 metri, luminosa, immobile, che sembra emanare pace.
Resto senza parole.
Rimango seduto, in silenzio, a contemplare tutto per un quarto d’ora.
Quando esco, rimetto le scarpe e sento un suono familiare: voci italiane. Un gruppo di sardi — famiglie, amici, giovani e meno giovani — si stanno organizzando per fare una foto di gruppo. Mi offro di scattarla io.
«Ah ma sei italiano?» mi fanno.
Da lì nasce una chiacchierata spontanea, leggera. Io che amo la Sardegna, approfitto per chiedere qualche cosa sulla loro terra. Loro ridono, scherzano, qualcuno non manca di fare le solite battute su Napoli.
A un certo punto mi criticano perché ho rivelato di aver viaggiato in Sardegna in camper: temono che io possa essere uno di quelli che lascia rifiuti in giro. Li rassicuro immediatamente. «Non mi permetterei mai», dico. E lo penso davvero.
Tra una battuta e qualche scambio di vedute, la conversazione resta comunque piacevole. Dopo una ventina di minuti li saluto.
Faccio un ultimo giro del complesso e poi decido di andare a godermi il tramonto sul fiume. Apro Google Maps: dall’altra parte del fiume c’è un bar che sembra perfetto. Prenoto subito un Grab.
In pochi minuti arrivo a destinazione.
Il bar è quasi vuoto. Entro e chiedo il menu a una ragazza che sbuca da una porta laterale. Mi accomodo fuori, proprio sul lungofiume. Ordino un frappé al kiwi, freddo, rigenerante.
Arriva dopo qualche minuto.
Lo sorseggio lentamente, mentre accanto a me si siede un cane, tranquillo, come se avesse deciso di farmi compagnia.
Ci godiamo insieme il tramonto.
Io, il cane, il fiume che scorre, e la sera che cala su Chiang Rai come una carezza.
Termino la mia bevanda ed entro a pagare. Quando esco, saluto il cane che sonnecchia all’ingresso e mi incammino lungo il fiume, dove una pista ciclabile taglia la quiete del tardo pomeriggio. Più avanti incrocio dei ragazzi che giocano a basket, altri impegnati in un campo di calcio tennis. Qualcuno pedala lento, qualcuno passeggia trascinando con sé la giornata.
In un piccolo parco, una serie di piccole statue di elefanti osserva silenziosa il passaggio della gente. Mi fermo ancora un po’ davanti al fiume: il buio sta scendendo piano, come se volesse avvolgere tutto senza disturbare.
Prenoto un altro scooter su Grab e, dopo un quarto d’ora, sono in hotel. Mi concedo una doccia lunga e rilassante, poi mi preparo per uscire di nuovo. Ho fame, ma soprattutto voglia di perdermi nella sera.
La sera accogliente di Chiang Rai
Esco e cammino lentamente verso il centro della cittadina. Passo davanti alla stazione dei bus e mi fermo un attimo: voglio capire come raggiungere il Triangolo d’Oro, la tappa finale del mio viaggio. C’è un foglio attaccato alla biglietteria — chiusa — con orari e percorsi dei bus, ma è tutto scritto in thailandese. Non capisco nulla, quindi rinuncio e continuo a camminare arrivando al Chiang Rai Night Bazaar dove passeggio tra bancarelle e luci che profumano di vita quotidiana, comprando qualche souvenir.
Arrivo in una piazza piena di tavoli, un palco per i cantanti, e stand di cibo e bevande tutto intorno, proprio come a Lanna Square a Chiang Mai. Scelgo uno stand e vengo accolto dal sorriso gentile di una ragazza thailandese. Ordino un Chicken Fried Rice e un Mango Sticky Rice — quella combinazione perfetta di riso glutinoso, mango maturo e crema di cocco che potrei mangiare all’infinito.
Nell’attesa vado a prendere una bevanda da un altro lato della piazza. Quando torno, la ragazza mi chiede di aspettare ancora cinque minuti. Allora scelgo un tavolo, mi siedo e mi lascio immergere nel rumore leggero della piazza. Dopo un po’ mi chiama: la cena è pronta. Mangio tutto con calma. È tutto buonissimo, uno di quei pasti che ti fanno sentire grato anche senza un motivo preciso.
Mi alzo, sistemo il tavolo e mi rimetto a camminare senza una vera direzione. La notte di Chiang Rai mi inghiotte, tranquilla e viva allo stesso tempo. A un certo punto sento della musica provenire dall’alto. Alzo lo sguardo e vedo luci che brillano su un tetto. È un rooftop bar.
Trovo l’ingresso e salgo fino al terzo piano. Dentro ci sono una decina di tavoli: gruppi che giocano a carte o con giochi da tavolo, un ragazzo che suona la chitarra e canta, un bancone illuminato. Gli sgabelli accanto alla balaustra danno una vista perfetta sulla città.
Mi siedo proprio lì e ordino un mojito. Lo sorseggio mentre fumo una sigaretta.
Il tempo qui sembra camminare piano, come se avesse rispetto per chi vuole solo un momento di respiro.
Resto per circa un’ora, ascoltando della buona musica, poi pago ed esco. Sulla strada del ritorno passo davanti alla piazza dell’orologio illuminata. È suggestiva, quasi ipnotica. Riprendo il cammino verso l’hotel, ma prima faccio tappa dal mio immancabile compagno di viaggio: il 7-Eleven, per prendere qualcosa per la colazione del giorno dopo.
La notte che chiude questa giornata infinita
Arrivo all’hotel. La reception è chiusa. Salgo in camera senza fare rumore, poi esco sul terrazzino e mi siedo al tavolo. Accendo una sigaretta.
La mente ricomincia a muoversi da sola, come se avesse bisogno di mettere ordine.
Ho fatto mille cose. Ho visto posti nuovi. Ho incontrato persone.
Ripensandoci, è stata una giornata interminabile… e bellissima, che mi ha portato felicità.
Con questo pensiero rientro in camera, tiro la tenda e mi preparo per andare a dormire, custodendo quella sensazione di pienezza che solo i viaggi sanno regalare.


































































Lascia un commento